La storia di Ubisoft è sempre stata una storia di fallimenti. Promesse meravigliose che una volta sullo scaffale del tuo negozio di videogiochi preferito non si concretizzano. Idee ambiziose che a contatto con la realtà si restringono, come mutande dentro una lavatrice sbagliata. I fratelli Guillemot volevano volare, e spesso invece sono caduti. Ma altrettanto spesso, come il Buzz Lightyear di Toy Story, l’hanno fatto con stile.
Wayne Gretzky è famoso per essere ad oggi il miglior marcatore di sempre della National Hockey League americana. Non è un caso che sua sia quella frase ripresa da tantissimi corsi motivazionali e fuffa-guru che sostiene che sbagli il 100% dei tiri che non fai. Un inno al provarci, sempre, a chiamare carta anche quando sei già pericolosamente vicino al 21. Ed è qualcosa che Ubisoft, che nella Brantford che ha dato i natali a Gretzky ha una delle sue tantissime sedi, fino a qualche tempo fa ha sempre provato a fare.
METAL GEARS OF WAR
È il 2002 e Xbox arranca. Arranca perché dall’altra parte la concorrenza si chiama PlayStation 2, e su PlayStation 2 escono cose che molto banalmente su Xbox non ci sono. E quando ci sono non se ne accorge nessuno, perché Metal Gear Solid 2 da qualche mese è disponibile anche sulla macchina di Microsoft, ma non basta questa nuova versione Substance con un anno di lag rispetto all’uscita su PS2 per convincere la gente a fare il salto della barricata. Per farlo servono esclusive, totali o temporali che siano. Per farlo serve – almeno, l’intenzione è quella – Splinter Cell.

Ho perso il conto delle volte che ho pensato di vedere quelle tre lucette verdi in qualche teaser per poi svegliarmi tutto sudato.
Il “Metal Gear Killer” alla fine è morto due anni prima che Konami licenziasse Kojima
AGIAMO NELL’OMBRA PER SERVIRE LA LUCE
Oggi dici Ubisoft ed è inevitabile pensare ad Assassin’s Creed. Il solo Valhalla da solo ha venduto un numero di copie paragonabile alla somma di tutto ciò che ha come protagonista Sam Fisher, e la serie in realtà è diventata un classico già con l’uscita del primo capitolo e un blockbuster con il debutto di Ezio Auditore. Ma nei primi anni 0 Assassin’s Creed non esisteva ancora. Esisteva Prince of Persia, e lo studio di Montreal aveva quest’idea per un capitolo dove non si controllava il principe, ma una delle sue guardie incaricata di vigilare su di lui. Però la serie si chiama Prince of Persia e, beh, l’idea di un capitolo dove il principe non è centrale non convince tanto il reparto marketing – difficile dargli torto oggi, all’indomani del flop non del tutto meritato di The Lost Crown. Sull’idea però si rilancia: se nulla è reale e tutto è lecito, perché invece di Prince of Persia: Assassin non lo chiamiamo Assassin’s Creed?
Se lo poteva permettere, ma prima di diventare un clonazzo di The Witcher 3 Assassin’s Creed si prendeva bei rischi

THE ART OF UBISOFT
Con l’eccezione del tie-in videoludico del King Kong di Peter Jackson, nel 2011 Michel Ancel non aveva più diretto nulla dopo il rovinoso flop di Beyond Good & Evil – che è a tutti gli effetti un altro degli esempi della Ubisoft che ci provava. Ha lavorato come character designer alla serie Rayman Raving Rabbids, ma è poco per lui, ed è poco forse anche per Rayman. E quindi c’è fermento attorno all’uscita di Rayman Origins, che oltre a segnare la fine di questo digiuno è anche il debutto di UbiArt Framework, un engine 2D sviluppato ad hoc per il nuovo platform che permette a disegnatori e animatori di aggiungere elementi e renderli facilmente interattivi. Ancel è carico, e addirittura esprime il desiderio di mettere il motore a disposizione di tutti. Non solo all’interno di Ubisoft: tutti gli sviluppatori che lo vogliano, e gratuitamente.
“Se i tizi che hanno inventato i pennelli li avessero tenuti per loro le belle arti sarebbero in uno stato pietoso, sarebbero stati effimere. Quindi sì, voglio che UbiArt sia Open Source, voglio che sia condiviso ed evolva”
Rayman Origins riesce in effetti a consacrarsi come uno dei migliori capitoli della serie e un grandissimo platform, surclassato solo da qualche esclusiva Nintendo e dal suo stesso sequel, Legends. Dopo questi due exploit però la serie sparisce – di nuovo – rapidamente dai radar, confinata su mobile e ridotta ad un paio di endless runner come quelli che vanno di moda negli anni di Temple Run. E ad UbiArt succede sostanzialmente la stessa cosa, perché dopo Valiant Hearts e Child of Light il massimo dell’utilizzo che si fa del motore è spostarci lo sviluppo di Just Dance. Il problema, almeno secondo quanto detto da Yves Guillemot in un’intervista del 2019, è che UbiArt è eccessivamente complicato da usare. Gli altri studi di Ubisoft non hanno troppa intenzione di “spendere un sacco di tempo con della gente che è li per aiutare altra gente ad usare effettivamente l’engine”. E quindi un po’ alla volta il motore diventa meno centrale nell’economia dell’azienda, anche perché parallelamente si rinuncia a sviluppare nuove esperienze 2D – prima di The Lost Crown c’è il vuoto, e purtroppo credo che dopo sarà lo stesso – in favore della maggior markettabilità di quelle a tre dimensioni.
LA LOCURA RENÈ
Gli unici a credere in Wii U. E gli unici a darci un simil-Wind Waker fuori da Wii U. Impara, Nintendo


Il futuro dell’industria sta nei giochi venduti a prezzo budget che poi non compriamo lo stesso perché li fa Ubisoft.
Sofferenze che alla fine hanno avuto un valore che c’entrava molto poco con quello azionario a cui Ubisoft ha votato la sua anima in questi ultimi anni.